Carlo Grimaldi | 1984 | Un lungo flash
La storia di Carlo – “Frate” per gli amici – ci riporta a Milano alla fine degli anni Settanta e sembra la solita triste parabola di un ragazzo caduto nel tunnel dell’eroina. L’autore ci porta con sé nei parchi e nei palazzi della periferia milanese e ci fa vivere il doppio “sbattimento” di tutti i giorni: prima la ricerca del denaro con ogni mezzo, poi l’attesa spasmodica dell’arrivo del pusher con la dose. Ma questa storia ha un lieto fine in una “comune” inglese, dove Carlo completerà un rigido percorso di riabilitazione, tra nuove amicizie ed il successivo incontro con Annette.
Una versione nostrana e quasi sconosciuta di “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” che sorprende per lo stile elegante, nonostante il linguaggio sia crudo e infarcito di termini gergali, specie nella parte milanese. Allo stesso modo il protagonista riesce a mantenere sempre la propria umanità, anche nei momenti peggiori.
Il romanzo si apre con la poetica descrizione del viaggio di tre mesi compiuto da Carlo sulla Rotta Hippie:
“Il viaggio era stato lungo, snervante, ma anche pieno di cose e di persone che non avresti più dimenticato. Stavi per arrivare a Istanbul, ed eri stanco e senza un soldo in tasca, e già ti vedevi in fila davanti all’ambasciata per chiedere il rimpatrio.
L’India l’avevi girata in fretta, ma avevi vissuto più cose durante quei tre mesi che durante tutta la tua vita. E il viaggio l’avevi fatto come lo facevano tutti gli sballati, col magic bus, attraverso mezza Asia, dormendo un po’ dovunque e incontrando gente di tutti i tipi. Eri stato a Teheran poche settimane prima che lo scià venisse deposto, e a Kabul, dove avevi trattato con dei beduini per del <<fumo>>. E a Islamabad, dove ti eri intruppato per un po’ con dei ragazzi francesi. Ricordavi con gioia il tuffo nel fiume Iamuna, e Vrindavana, la città dei templi dov’eri andato alla ricerca di Krishna. E ancora avevi inchiodati nel cervello i morti di fame per le strade di Delhi… e la febbre a quaranta che ti era scoppiata dopo aver lasciato Amritzar, sulla via del ritorno. E ti portavi tutto dietro, come se fosse chiuso nella sacca bianca che tenevi sulla spalla, in quella corriera traballante, nell’aria afosa, infuocata dal sole di agosto.”